I dati macro inferiori alle attese hanno fortemente influenzato i mercati. Pesanti le borse, forti le divise rifugio, calo ulteriore e significativo dei tassi di interesse. Il conflitto mediorientale e i pericoli di allargamento al territorio libanese contribuiscono al “risk off”. In settimana vi è stato un calo di 30 centesimi sui tassi Usa (Bond 10 al 3,96%), di 20 centesimi su quelli eurozona (Bund 10 al 2,24% e Irs 10 al 2,54%; segui tassi e valute su www.aritma.eu).
Un mese, quello di luglio, di ribassi dei tassi di interesse: tutto nasce dal rallentamento dell’inflazione Usa. Il movimento è poi stato alimentato dalla frenata delle aspettative del settore servizi e manifatturiero. Il ribasso da inizio luglio è di quelli importanti: il Bond Usa 10 anni era al 4,60% oggi è al 3,95%; il Bund 10 dal 2,60% è sceso al 2,25%; il 2 anni dal 2,90% al 2,45%. L’Irs 10 dal 2,90% è al 2,55%, il 2 anni dal 3,25% al 2,80%.
Il pesante calo dell’indice ISM Manifattura Usa ha gelato i mercati.
L’attività manifatturiera della zona euro è rimasta in contrazione a luglio, in un contesto di malessere su larga scala, con un calo della produzione al ritmo più veloce di quest’anno. L’indice finale dei responsabili degli acquisti (Pmi) della zona euro si è attestato a luglio a 45,8, invariato rispetto a giugno, superando di poco la stima preliminare di 45,6. Da oltre due anni il dato è sotto la soglia di 50, che separa la crescita dalla contrazione. L’indice che misura la produzione è sceso a 45,6, minimo di sette mesi (dal 46,1 di giugno), appena sopra la stima flash di 45,3. La domanda, in calo da oltre due anni, è scesa a luglio a un ritmo più sostenuto, lasciando intendere che non ci sarà una rapida inversione di tendenza. L’indice dei nuovi ordini è sceso a 44,1 da 44,4. Questo nonostante le aziende abbiano ridotto i prezzi anche se i costi sono aumentati più rapidamente.
Unico segnale positivo è la crescita dello 0,3% del Pil eurozona nel secondo trimestre (attese 0,2%, primo trim. 0,2%), ma il dato riguarda ancora il passato. È in corso un rallentamento dell’economia se si guarda agli indici di fiducia: oltre agli indici Pmi e l’Ifo tedesco, questa settimana anche l’economic sentiment si è aggiunto a rafforzare questa ipotesi.
L’inflazione è aumentata inaspettatamente il mese scorso, come hanno mostrato i dati ufficiali, anche se l’indicatore della crescita dei prezzi nel settore dei servizi, ampiamente osservato, è diminuito. Complessivamente, a livello eurozona la cpi core è stimata al 2,9% a luglio, stabile rispetto a giugno e maggiore delle attese di 2,8%. La cpi sale al 2,6% superiore a giugno e alle attese (2,5%). Il dato congiunturale è pari a zero mentre a luglio normalmente – grazie all’effetto dei saldi – il dato è negativo. Questo unitamente a un prezzo del greggio che sale per le tensioni geopolitiche e il possibile coinvolgimento dell’Iran, potrebbe portare la cpi eurozona a scendere un po’ meno del previsto nei prossimi mesi: i mercati sono tuttavia concentrati sulle prospettive di crescita e danno quasi per assodato un ritorno dell’inflazione nel 2025 agli obiettivi del 2% delle banche centrali.
Come dire che la missione “rientro dell’inflazione” ha avuto esito positivo, ma ora si hanno dubbi sul soft landing. Per quanto fossimo convinti che i passati rialzi dei tassi dovessero ancora espletare i loro effetti recessivi, gli ultimi indici di fiducia sorprendono negativamente (inferiori al consesus e a quelli di giugno). È un campanello d’allarme che potrebbe indicare un hard landing, ma appare forse prematuro il pessimismo dei mercati (cali delle borse, ribassi pesanti dei tassi). Quello che invece appare corretto e salutare è la correzione in atto sui mercati azionari e finalmente un ritorno alla realtà che sia a livello geopolitico sia a livello di prospettive di utili delle quotate presenta rischi.
Come largamente atteso, la banca centrale statunitense ha mantenuto il tasso di interesse di riferimento fermo nella fascia 5,25%-5,50%, ma ha ammorbidito la descrizione dell’inflazione con un linguaggio che apre la porta a un calo dei tassi a settembre. Nella conferenza stampa successiva al Fomc, Powell ha spinto il messaggio oltre, notando che le pressioni sui prezzi si stanno raffreddando in maniera generalizzata – quella che ha definito una disinflazione “di qualità” – e che se i dati in arrivo si evolveranno come previsto, crescerà il sostegno per un allentamento monetario dopo più di due anni di stretta creditizia.